Arrivo la prima volta a Emirates Palace direttamente dalla spiaggia di Corniche, infradito, zaino in spalla, discreta impanatura di sale e sabbia, provata dalla temperatura esterna: è evidente che non ho prenotato una suite ma sono lì a curiosare. Eppure mi accolgono come una principessa, con tante piccole attenzioni: da chi mi spalanca la porta dandomi benvenuto all’arrivo, a chi, alla fine della visita, si premura di farmi accomodare su un divano, al fresco, dove posso controllare su maxischermo l’arrivo del taxi.
D’accordo, saranno anche tecniche di un sofisticato customer service. Ma mi piace pensare che ci sia dell’altro. E secondo me ha a che fare con la storia di un sovrano illuminato e un brillante architetto inglese.
Emirates Palace: il sogno dello Sceicco e l’Architetto inglese
Emirates Palace apre al pubblico tra il 2005 e il 2006. Tempi e forza lavoro faraonici: un’opera realizzata da 20.000 lavoratori in tre anni.
Il progetto è dell’architetto inglese John Elliott, specialista per i progetti in Medio Oriente, co-fondatore e amministratore delegato di Wimberly Allison Tong & Goo, architetti e designer a cinque stelle. Giusto per sapere di chi stiamo parlando, sono gli stessi architetti che a Dubai hanno progettato l’Atlantis, a Muscat la Royal Opera House, resort di lusso in tutto il mondo per clienti come l’Hilton, Ritz, Hyatt, Crown e Le Meridien.
Immagino Elliott quando arriva per la prima volta ad Abu Dhabi, a 28 anni. È il 1967, Abu Dhabi praticamente non esiste: 4000 abitanti, una quarantina di expat, qualche edificio, poche moschee, forse un’unica strada asfaltata.
Il sovrano dell’epoca è Sua Altezza lo Sceicco Zayed, considerato il fondatore della nazione: per gli Emiratini è e sarà sempre “Our Father Zayed”, “Papà Zayed”.
Sua Altezza vuole costruire Abu Dhabi, ma non vuole una città “tutta petrolio e deserto”, come gli propongono gli architetti dell’epoca. Sua Altezza vuole una città per le famiglie, con parchi, piante e tanto verde, nonostante il clima. Una città sicura, pulita, vivibile e ospitale. Il giovane Elliott aveva fatto esperienza in Finlandia e in Svezia, dove progettava città a misura d’uomo. I due entrano subito in sintonia.
Sua Altezza ha le idee chiare sulla nuova Abu Dhabi, e le descrive al giovane architetto inglese, parlandogli del suo sogno e tracciando segni sulla sabbia con il camel stick, il suo inseparabile bastone. Elliott sa ascoltare quei segni e quelle parole, ne coglie lo spirito e li traduce in progetti e opere, divenendo il “planner” ufficiale della nuova Abu Dhabi.
Il progetto di Emirates Palace arriva quasi quarant’anni dopo, intorno al 2002. Elliott ha 63anni, una carriera di architetto di hotel di lusso e sontuosi edifici negli Emirati e in Medio Oriente, e soprattutto un lungo sodalizio con Sua Altezza.
L’obiettivo è realizzare un palazzo di rappresentanza per accogliere capi di stato e alti dignitari, con un centro congressi e due ali del lussuoso hotel gestito da Kempinski fino a gennaio 2020 e successivamente dal gruppo Mandarin Oriental.
Elliott deve aver considerato che, in quanto palazzo di rappresentanza, Emirates Palace doveva innanzitutto comunicare l’immagine del Paese ospite, la sua cultura e i suoi valori. Elliott e i suoi progettisti attraverso Emirates Palace riescono nella difficile impresa di armonizzare forme, colori e soprattutto materiali preziosi in uno stile elegante, che esprime opulenza senza mai scadere nella volgarità del lusso ostentato.
Ma soprattutto mi piace pensare che gli anni di intensa frequentazione e amicizia con Sua Altezza abbiano portato l’architetto inglese a esprimere in Emirates Palace, almeno in parte e forse inconsapevolmente, il concetto dell’ospitalità munifica, tipico della cultura beduina: accogliere l’ospite con tutti i riguardi e rendergli onore. Stupirlo è comunque un modo per omaggiarlo.
Ora, io sono immune al fascino del lusso. Non sono invece insensibile all’armonia dell’eleganza, e questo è uno dei motivi per cui Emirates Palace ritorno sempre a visitarlo volentieri.
A impressionarmi però non sono marmi, ori, arabeschi e Swaroski.
Quello che mi stupisce maggiormente a Emirates Palace sono proprio l’accoglienza gentile e le piccole coccole che ti vengono riservate per il solo fatto di essere entrato in quel palazzo, e che ti fanno sentire un ospite, prima che il titolare di una carta di credito.
E mi piace immaginare che per una sorta di lascito spirituale del grande Sceicco illuminato, Emirates Palace possa rimanere un tempio e un esempio della leggendaria ospitalità emiratina.
